Come da tradizione, la prima settimana di giugno vede i riflettori puntati sulla capitale francese. Se lo Stade del Roland Garros, nel 16° arrondissement, accoglie, da quasi un secolo, i più prestigiosi nomi del tennis internazionale, in quello che è il primo appuntamento del Grande Slam, a pochi metri di distanza, la Plaine de la Belle Etoile, nella splendida cornice del Bois de Vincennes, riunisce, da qualche anno, alcuni dei protagonisti indiscussi della scena musicale internazionale che, per praticità, possiamo etichettare con l’appellativo indie. L’occasione è data dal festival più green e cool fra i tanti che si succedono a ritmo serrato nell’estate parigina,ovvero il We Love Green, che, anche nell’edizione appena conclusasi, non ha deluso per la varietà e la qualità del programma proposto .
Edizione benedetta da condizioni atmosferiche invidiabili: sole battente e nemmeno una goccia di pioggia a disturbare le due giornate di festival.
Avendo preso altri impegni per la giornata di sabato, ho potuto essere presente solo domenica 2 giugno. Fra i nomi in scaletta il 1° giugno, ci spiace non aver potuto assistere alle performances di FKA twigs, fresca della pubblicazione del suo nuovo singolo Cellophane, dei Metronomy, degli Sleaford Mods, ma anche della regina delle charts francesi (e non solo) Christine and the Queens, ma contiamo di recuperare in una prossima occasione.
Veniamo quindi al racconto della seconda giornata.
Arriviamo verso le 15, giusto in tempo per dirigerci verso il palco della Canopée, dove un piccolo gruppo di irriducibili, per niente impressionati dalla canicola, attende gli australiani Pond.
Gruppo amatissimo anche a queste latitudini, i Pond hanno pubblicato nello scorso mese di marzo Tasmania, un album dalle sonorità dreampop e psichedeliche, loro peculiari, che ha raccolto giudizi piuttosto positivi. E, non avrebbero potuto trovare un palcoscenico migliore, per esibirsi, che un festival a tema ecologico, tenuto conto che de sempre Nick Allbrook e soci hanno fatto proprie le questioni ambientali. Il set si è aperto sulle note di Daisy, brano presente proprio su Tasmania, in scaletta anche con la titletrack e la bella Burnt Out Star. Ma abbiamo avuto diritto anche a un titolo dal precedente album, The Weather, ovvero Sweep Me Off My Feet e, graditissime, due cover, Ray of Light di Madonna in una esibizione più che riuscita e Jive Talkin’ / Paint Me Silver dei Bee Gees a conferma dell’influenza esercitata dalla musica 70s sul carismatico lead singer (che non si è fatto mancare un incontro ravvicinato con i fan alla barriera).
Un’esibizione breve ma intensa per una band che tiene perfettamente la scena e che dal vivo risulta persino più solida che su disco.
Subito dopo è il momento attesissimo di un’altra australiana, ovvero Courtney Barnett. Risale ormai allo scorso anno la sua ultima fatica, il suo terzo album in studio Tell Me How You Really Feel, disco che ha riscosso il plauso pressoché unanime della critica. Per quanto ci riguarda, il lavoro non ci aveva pienamente convinto: è quindi con grande curiosità che abbiamo assistito all’esibizione della giovane musicista. Un set che si è rivelato allo stesso tempo energico, vitale e stupendamente eseguito. Courtney tiene la scena con maestria: canta, suona la chitarra, dialoga con il pubblico e con la band come una rocker navigata e tutti i brani risultano straordinariamente efficaci dal vivo. Non mancano, dall’ultimo disco, City Looks Pretty, Nameless, Faceless e Need a Little Time, ma è il precedente Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit con ben cinque tracce a fare la parte del leone. Bellissima, Nobody Really Cares If You Don’t Go to the Party, scatena l’entusiasmo dei presenti che ne conoscono il testo a memoria e lo cantano assieme a Courtney. Chiude l’esibizione Pedestrian at Best e possiamo dire, senza tema di smentita, che si è trattato di uno dei momenti migliori della giornata.
Terminata l’esibizione della Barnett, corriamo verso il palco della Prairie, dove è appena iniziato il set di VALD, stella del rap transalpino. E ci troviamo immediatamente circondati da un pubblico di giovanissimi – in quasi totalità francesi – in totale delirio per quanto accade in scena. Pogos a ripetizione, applausi e pezzi intonati dalla quasi totalità presenti sono intervallati da divertenti boutades del giovane francese, che è coadiuvato sul palco da Vladimir Cauchemar – altro rapper parigino – la cui identità è avvolta da un fitto mistero. Fra i tanti pezzi proposti brani dell’ album XEU (ad oggi il suo più grande successo, ndr), come Chépakichui e Désaccordé, ma anche l’inedito Elevation, gradito antipasto in vista del suo nuovo, terzo disco, previsto per il prossimo autunno.
Attesissima, alle 19.00 sempre sul palco principale, Kali Uchis, stella nascente del neo soul. Abito bianco cortissimo, corsetto rosso e capelli raccolti in una coda di cavallo, l’americana, di origine colombiana, presenta un set che comprende brani dell’ultimo bellissimo album Isolation e altri tratti dal precente Por Vida. E’ Loner, in una versione languida e ipnotica, ad aprire le danze, ma non mancano Dead to Me e Ridin Round e le cover di Beautiful di Pharrell e di Creep dei Radiohaed resa incredibilmente sensuale da Kali, che si conferma un’interprete di classe ed eleganza indiscusse. Chiude il set Tyrant, brano che su disco prevede la presenza di Jorja Smith.
Le sonorità latine sono di grande moda e fra le protagoniste della giornata c’è anche la spagnola Rosalia, attesa da un nutrito gruppo di connazionali, venuti a Parigi espressamente per assistere al suo live. Tutina corta bianca e oro, Rosalia sale sul palco accompagnata da sei ballerine, che eseguono con lei le coreografie pensate per il suo flamenco anni 2000.
Gli astanti, conquistati, apprezzano le nove bellissime tracce del suo El mal querer: fra tutte citiamo Malamente, Maldicion, Pienso en tu Mira e Que No Salga la Luna. A noi, che abbiamo amato altresi la sua collaborazione con James Blake, è piaciuta soprattutto la romantica Barefoot in the Park.
Verso le 9, ci avviamo con decisione verso i pezzi forti della giornata e del festival: ovvero i set di Erykah Badu e dei Tame Impala.
Si presenta agghindata bizzarramente e con una mezz’ora buona di ritardo la cantautrice statunitense, stella indiscussa del r’n’b. Ma si fa perdonare grazie a un set eccellente, brillantemente eseguito, che prevede brani nuovi e vecchi successi. Apre il concerto la recente Hello, tratta dall’ultimo disco di Erykah, il mixtape del 2015, You Caint Use My Phone, ma non mancano i pezzi iconici del suo repertorio come la languida On & On e Love of my Life.
Il concerto è forse un po’ troppo breve, ma l’americana fa la sorpresa di un’incursione fra il pubblico delle prime file, che ovviamente gioisce del contatto ravvicinato con la sacerdotessa del soul.
Infine è il momento dei Tame Impala, che si confermano una delle band più entusiasmanti in concerto. Colorati, allegri, scanzonati gli australiani non lesinano atmosfere lisergiche e psichedeliche e, natuaralmente coriandoli a profusione. In scaletta tutti i loro più grandi successi, da Let It Happen a Less I know the Better e i primi due singoli del nuovo disco in lavorazione, Borderline e Patience. Chiudono il set stupendamente con Feels Like We Only Go Backwards e la magnifica New Person, Same Old Mistakes, sulle cui note termina anche il nostro festival.
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