Malgrado il sound vigoroso e il ritmo martellante che rievoca qua e là i paesaggi del Nord Europa, richiamati anche dall’insolita scelta del nome, sono italiani e provengono da Spoleto, in Umbria, Tommaso Faraci e Francesco Marcolini, ovvero i due musicisti che sono all’origine dei Folwark, una delle band più insolite e originali dell’attuale panorama italiano.
La band, formatasi nel 2014 e con una esperienza considerevole alle spalle, ha dato recentemente alle stampe la sua opera prima. Pubblicato con l’etichetta Seahorse Recordings, in un primo tempo in versione digitale e successivamente, lo scorso 20 settembre, su supporto fisico, Vimāna è un album solo strumentale. I Vimāna sono i mitici palazzi volanti raccontati nelle epopee sanscrite, e, in questo contesto diventano la macchina perfetta e misteriosa utilizzata dai due amici per consentirci di percorrere il loro universo musicale. Imponenti riff di chitarra e percussioni indiavolate, ma anche sintetizzatori e thermin: le sonorità offerte dalla band sono un interessante mélange di movenze krautrock venate di alternative metal con nuances ora rock ora post rock.
Le otto tracce incluse nell’album disegnano una sorta di itinerario, una lunga cavalcata fra stili musicali differenti e a volte anche antitetici, ma in un certo senso complementari, a testimonianza della continua sperimentazione ricercata dal duo. E’ l’epica e vigorosa The Riddler ad aprire le danze: la batteria martellante di Faraci scandisce energicamente il ritmo dialogando con la chitarra di Marcolini, facendoci da subito capire cosa ci attenderà nel prosieguo. Non meno movimentate la seconda e la terza traccia, rispettivamente Trine e I’ll teach you the Fish, che danno un passo decisamente hard rock alla prima parte del disco.
Tuttavia, le soprese più gradite arrivano subito dopo. Bella e intrigante Bwommi, si situa in uno spazio intermedio fra psychedelic rock, post rock e stoner rock, passando da un’introduzione ipnotica e avvolgente a vorticosi riff di chitarra, in una piacevole alternanza di ritmi.
Bella la sequenza finale, formata dal trittico Floyd, Steps e Wheather P, pezzi nei quali sintetizzatori e theremin prendono il sopravvento, mescolando un poco le carte in tavola e conferendo spessore, profondità e originalità al disco, nel complesso decisamente riuscito.
Ciliegina sulla torta Wheather P, il pezzo che chiude il disco e ci sorprende con sonorità vagamente d’antan, allo stesso tempo sognanti e vorticose, sottolineate dal dialogo fra chitarra acustica e theremin. Sullo sfondo un coro a bocca chiusa per quello che è forse l’episodio migliore del disco.
7,5/10