Non hanno certo bisogno di troppe presentazioni i Pet Shop Boys, paladini indiscussi della scena elettropop da quasi quarant’anni.
Eppure, anche grazie alla feconda collaborazione con Stuart Price, il duo inglese composto da Neil Tennant e Chris Lowe è ancora oggi, malgrado lo scorrere inesorabile del tempo, protagonista di una effervescente fase creativa che si è concretizzata con la pubblicazione di una fortunata serie di album nel corso di quest’ultimo decennio. Una parentesi che non accenna a chiudersi è che, come ultimo tassello, ha visto la pubblicazione a metà gennaio del loro quattordicesimo album in studio, Hotspot.
Il disco, registrato presso gli Hansa Studios di Berlino è un gradevole e riuscito résumé di quanto di meglio la band ha saputo offrirci nel corso della sua lunghissima carriera. Diciamolo subito, le dieci tracce incluse nel disco non hanno nessuno sprazzo della genialità che Tennant e Lowe sono stati capaci di regalarci nel passato (ricordiamo brani entrati nella storia del synthpop come Domino Dancing o West End Girls o altri capolavori regalati ad artisti amici, fra tutti I’m not scared portata al successo dagli Eighth Wonder o I’m losing my mind splendidamente interpretata da Liza Minnelli, ndlr). A partire da questa premessa ci pare di poter comunque dire che si tratti, nel complesso, di canzoni gradevoli e ben confenzionate che si lasciano ascoltare con grande interesse.
Ma cominciamo dall’inizio.
E’ la bella Will-o-the-wisp a fare da apripista: un pezzo teso e velocissimo che ci accoglie con un tappeto di sintetizzatori, a conferma dello stato di grazia del duo, che non ha perso pressoché nulla dello smalto degli esordi.
Il brano ambientato nella U-Bahn di Berlino e che nel titolo evoca il fenomeno dei fuochi fatui, prende spunto da alcuni frammenti dei diari di Christopher Isherwood: inutile dire che è anche uno dei migliori episodi di Hotspot.
I see you after many years
On an elevated train
Rattling above the streets of a city
Where men don’t wait in vain
I think, my, you may have changed
But you’re such a handsome thing
Do you still hang around that old arcade
To see what luck will bring?
Un altro momento interessante è rappresentato dal primo singolo estratto, Dreamland, cantata assieme alla band elettronica britannica Years & Years, il pezzo più politico dell’album, che, ovviamente non puo’ esimersi di trattare la spinosa questione Brexit.
We’re falling for pleasure
In a garden where the sun still shines
And staying forever
Leaving all our worries behind
It’s a kind of amnesia
Where all problems seem to disappear
And you don’t need a visa
You can come and go and still be here
recita, malinconicamente la seconda strofa.
Passaggi interlocutori ma decisamente riusciti sono rappresentati da Hoping for a Miracle e Burning the Heather, che abbandonano le cadenze più vorticosamente elettrodance, per offrirci sonorità più raffinate e melodiche, perfettamente in sintonia con testi eleganti e ben costruiti.
You’re hoping for a miracle
To get you out of here
Hoping for a miracle
A miraculous career
Where everyone loves you
Everyone wants you
A photo on their phone
recita il ritornello della prima delle due tracce, una sorta di spietato ritratto di moderni yuppies.
Magnifica l’introduzione della seconda, con incantevoli e insoliti riff di chitarra a fare da sfondo alla parte cantata.
Ovviamente le sonorità synthpop tornano le grandi protagoniste nella quasi totalità dei brani restanti, ma è interessante notare come la band non tema le sfide e non rinunci alla sperimentazione.
Come nel caso del brano che chiude l’album, ovvero una sorprendente Wedding in Berlin che coniuga l’elettronica con la musica classica, intrecciando una trama decisamente discodance con le note della marcia nuziale di Felix Mendelssohn.
Nel complesso un disco decisamente riuscito che si guadagna una notazione più che positiva.
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8/10